“Storie di solitari americani” (ed rizzoli 2006 a cura di Gianni Celati e Daniele Benati ): un’antologia sulla solitudine degli spazi. Folla e individuo allo specchio dell’anima. L’attualità di un sentimento comune raccontato da autori di altri tempi. Intervista a Daniele Benati
Perché avete scelto un tema come la solitudine?
La solitudine è una delle “malattie” più diffuse nella società moderna, ma, come la morte, è un tema che gli editori non gradiscono. La morte e la solitudine non fanno cassetta. La gente vuol leggere un buon libro con una trama avvincente o guardarsi un film con qualche soggetto amoroso su cui poter dirottare i propri desideri. Magari per nascondere a sé la propria solitudine e identificarsi in storie vissute da altri, o messe in scena, o inventate, non importa.
L’idea di questa raccolta che abbiamo pubblicato, intitolata Storie di solitari americani, è una vecchia idea di Guido Fink e Gianni Celati, e risale all’epoca in cui entrambi insegnavano letteratura americana all’università di Bologna. Parlo di oltre venticinque anni fa. Mi ricordo di una dispensa che Celati mi aveva dato verso la fine degli anni ottanta nella quale era già raccolto in gran parte il materiale che poi abbiamo usato per questa nostra antologia. Materiale in lingua originale, voglio dire, che loro avevano usato per i loro corsi.
Celati poi ha continuato a riflettere sul tema per tutti questi anni, traducendo anche alcuni lunghi racconti che poi abbiamo inserito nella raccolta, ma soprattutto scrivendo e riscrivendo quello che ora figura come saggio introduttivo. E la lettura di questo saggio è illuminante, perché anche su persone come me, che hanno studiato la letteratura americana all’università e hanno continuato a farlo anche dopo, ha avuto un effetto sorprendente, come se tutto quello che avevo in disordine nella testa si fosse all’improvviso messo a posto e avessi capito tutto. Cioè tutto quello che c’era da capire della letteratura americana.
E quello che c’é da capire è che la letteratura americana, più ancora di quella europea, ha fatto proprio questo tema, grazie a grandi scrittori che hanno creato mostri di solitari come il Wakefield di Hawthorne, l’Uomo della folla di Poe e il Bartleby di Melville. Questi sono tre esempi di solitari la cui condotta non può essere di alcun beneficio per il lettore. Sono personaggi che non hanno stretto alcun patto con la società e che dalla società anzi si lasciano escludere. Il motivo per cui lo fanno rimane un mistero, ma è proprio per questo che si rendono impenetrabili. Cioè non assimilabili, ma avulsi, fuori dagli schemi.
Se questo è il “la” che ha dato origine alla letteratura americana, non dovrebbe meravigliare che poi anche altri autori vi si siano intonati. Il problema è come intonarsi a un messaggio così disperatamente lucido.
Ora, la letteratura americana è piena zeppa di racconti. Quella è una letteratura che ama il racconto e l’America un paese in cui il racconto, come genere, è sempre stato apprezzato. Ma qualcosa col tempo è cambiato anche lì. Ossia, questi primi grandi scrittori hanno posto le basi di un modo di narrare non convenzionale, certamente problematico, perché basato sull’eccezionalità dell’esperienza del singolo. Ora questo rapporto, produttore di grandi solitudini, con l’affermarsi della short-story, si è andato via via annacquando proprio perché la short-story, come genere di successo, deve per forza dare una versione pacificante di quel rapporto, eliminando le asperità della condizione del singolo a favore di un conformismo in cui tutti possano riconoscersi. In poche parole, la short story ha messo le cose a posto inventando la normalità. Per questo tanti scrittori sono stati esclusi dalla nostra raccolta. Noi abbiamo cercato quelli in cui era ancora vivo un contrasto fra il singolo e gli altri.
Perché avete scelto proprio gli scrittori americani per questo tema?
Rispondo con un brano tratto proprio dall’introduzione di Celati. Nella sua introduzione Celati obbligatoriamente cita come inizio di questo tema il lungo sonno di Rip Van Winkle, dall’omonimo racconto di Washington Irving (inizio Ottocento). Rip Van Winkle che si era perduto fra le montagne e cadeva in un lungo sonno durato vent’anni. La sua solitudine era più che altro un motivo di consonanza col mondo della natura, una quasi involontaria assenza che avveniva per incanto. Ora invece è proprio questo incanto a sparire, e il tema della solitudine compare con tutta la sua forza nella letteratura americana proprio a partire dal momento in cui si scopre, con Hawthorne, Poe e Melville, che la solitudine “non è l’effetto d’un incanto naturale, ma d’una specie di disincanto che si installa tra gli uomini, nelle sacche di estraneità che si formano all’interno della vita sociale. I suoi sintomi sono legati alla crescita di grandi masse anonime nella vita urbana, dove non si possono più a nascondere le distanze assolute che separano gli individui; perché le masse nascono dalla somma di unità separate che resteranno sempre separate, e perciò la solitudine sarà l’esperienza critica più diffusa dei tempi moderni. Più che nella narrativa europea, è nel racconto americano che questo aspetto della vita sociale prende spicco; e il suo fulcro non sta più nel pathos di un’interiorità abbandonata a se stessa, ma nell’esperienza di chi si è lasciato alle spalle i legami protettivi nella comunità d’origine.”
Ma fra gli autori europei chi ha trattato questo tema?
Be’, ce ne sono molti, ma non serve sapere quali autori abbiano trattato un tema come questo, ma come lo hanno fatto. La letteratura del mondo è piena di gente sola, ma non è scrivendo di gente sola che si parla di solitudine. Questo lo fanno i gazzettieri, i giornalisti, gli sceneggiatori di teleromanzi, non gli scrittori veri. Il senso della solitudine può trapelare da qualunque cosa e in genere gli scrittori che presentano personaggi soli ricavati a buon mercato dalla loro pigra fantasia non stanno parlando di solitudine ma di quello che più velocemente i loro lettori credono che sia la solitudine.
Ma rispondendo più direttamente alla domanda, credo che anche fra gli scrittori europei questo della solitudine sia stato uno dei temi dominanti. E mi riferisco a scrittori come Kafka, Beckett e Bernhard. Chi ha letto Bernhard sa che tutti i suoi libri sono il monologo di un solitario, lo stesso vale per Beckett; e in Kafka abbiamo sempre un personaggio singolo che va alla deriva cercando di dare un senso alla chiamata che lo ha prelevato dal nulla rendendolo oggetto di una narrazione nella quale sarà solo contro tutti.
Poi naturalmente ci sarebbero molti altri nomi, ma credo che sia nella letteratura in lingua tedesca che questo tema ha trovato il maggior numero di frequentatori. In Walser, ad esempio, abbiamo una versione della solitudine assolutamente inedita. Una solitudine che non viene rigettata ma ricercata come fonte di grandi emozioni. Emozioni anche per cose da nulla, ma che riempiono l’animo dell’uomo solo che va randagio per le strade sognando signore compiacenti e accontentandosi di tutto quel che trova.
Un altro caso è quello di Peter Handke. Anche lui ha fatto un gran parlare di solitudine. Ma accanto a un libro come quello scritto sul suicidio della madre (Infelicità senza desideri), dove il peso della solitudine è il vero fardello con cui non si riesce più fare i conti, ne ha scritto un altro (La donna mancina) dove il tema della solitudine viene quasi svenduto per evidenti scopi di mercato, con tanto di lieto fine.
Dunque la vera solitudine è un argomento che si cerca di nascondere?
Non è un argomento che si cerca di nascondere. Solo che agli editori non piace, anche se fortunatamente non tutti gli editori sono così. In certe case editrici i direttori editoriali stanno lì con la paura di perdere il posto e allora scartano gli argomenti che reputano un po’ da menagramo. Puntano su tematiche d’attualità, come quelle sbandierate dai telegiornali o da riviste come L’Espresso. La solitudine, anche se colpisce tutti, non può avere la stessa risonanza di un problema sociale, politico o ideologico. E’ qualcosa che non rende.
L’eccesso d’informazione e comunicazione che è tipica dei giorni nostri fa aumentare o diminuire la solitudine del singolo?
La fa aumentare. Non c’è dubbio. Anche se so di gente che s’è accoppiata attraverso internet, e dunque avrebbe risolto il suo problema di solitudine. Ma, ancora una volta, il problema della solitudine non è quello di esser soli (cioè non sposati, ad esempio) ma a ha che fare col modo in cui ci si rapporta col mondo e con la vita. Jack London, un grande scrittore che abbiamo inserito nella nostra raccolta, scriveva: “E’ semplice vedere ciò che è ovvio, fare ciò che è prevedibile. La vita degli individui tende ad essere statica piuttosto che dinamica, e tale tendenza viene trasformata in impulso grazie alla civiltà, dove viene visto solo ciò che è ovvio, dove raramente accade l’imprevisto. Quando però l’imprevisto accade, e quando si tratta di qualcosa di sufficientemente serio e importante, gli inetti periscono: non vedono ciò che è ovvio, non fanno ciò che è imprevisto, sono incapaci di adattare la propria vita, regolata dal solito tran-tran, su altre e strane abitudini. In breve: arrivati al termine del loro solco già tracciato muoiono.”
Cosa ne pensi della libreria discount dove i libri vengono veduti al chilo e dove i libri vengono venduti come bistecche?
Tutto quello che succede in Italia, o in Europa, ma in Europa forse meno, ha già fatto il suo rodaggio in America. Qui non s’inventa niente. Se in Italia decidono di vendere i libri a un tanto al chilo, vuol dire che l’hanno già fatto in America, e che in America ha funzionato. Ma di sicuro mi guardo bene dal dare giudizi su operazioni del genere. In fondo chi scrive dovrebbe vedere di buon occhio il fatto che l’editoria scovi modi e punti di vendita impensati, e questo è sicuramente un vantaggio per quegli scrittori che sono ben considerati dagli editori perché “vendono”. Ma per gli altri? Se l’editore decide di spedire nei supermercati, nelle edicole, nelle stazioni, negli aeroporti i libri di un loro scrittore e non i libri di un altro loro scrittore, quest’altro loro scrittore è logico che si troverà un po’ a mal partito col rendiconto delle sue vendite. Si dirà che gli editori sanno già quali sono le possibilità di vendita di un loro scrittore – possibilità che tra l’altro sono già implicite nella cifra che gli versano come anticipo perché se gli versano una cifra grossa, poi si danno da fare per vendere i suoi libri con la pubblicità e il lavorio sottobanco che fanno ai premi letterari. Si dirà questo, ma certo che al loro autore in odore di vendita gliela asfaltano bene a modo la strada per raggiungere il risultato che si propongono di ottenere.
A parte questo, un libro che consiglierei di leggere per capire come stanno le cose con l’editoria è Il controllo della parola, di André Schiffrin (Edizioni Boringhieri). Ecco, questo è un libro che fa mettere le mani nei capelli. Ora tutto è comandato dall’alto. Sono gli editori a stabilire quali libri andranno in libreria e in quante copie. Editori che non esistono nemmeno più come singole entità, ma solo come pedine di un grande gruppo. Spariscono le librerie che tengono piccoli editori, o libri strani, o semplicemente vecchi, cioè pubblicati dieci anni fa. Proprio come in America. Lì le grandi catene hanno il controllo quasi totale di quello che deve essere venduto. E la stessa cosa è avvenuta in Italia. Tu pubblichi un libro, anche da un editore importante, e il tuo libro ha un periodo di sopravvivenza che va dai tre ai sei mesi, poi rapidamente viaggia verso il macero, e tu con lui.
Come sono cambiati i criteri della scelta dei libri da pubblicare?
Secondo me, l’editoria italiana, con un ritardo di quindici anni, ha preso la stessa piega che quindici anni prima aveva preso l’industria discografica. E questo è avvenuto alla fine degli anni Settanta. E’ stato in quel momento che la letteratura ha perso molto della sua sacralità per diventare, appunto, un business. I discografici, che badano al sodo, e dunque alla grana, l’avevano capito al momento buono, cioè quando nel mondo è esploso il beat, poi chiamato rock. Cioè avevano capito che occorreva creare dei cloni italiani di artisti stranieri. Perché nel mercato si era abbassata la soglia d’età degli acquirenti. Ed erano i giovani a comprare, giovani che prima non esistevano semplicemente perché non avevano un giradischi in casa. Ora invece il giradischi c’era e bisognava creare prodotti per loro, prima traducendo in italiano canzoni che avevano avuto successo all’estero e subito dopo inventando personaggi nostrani che potevano somigliare agli idoli d’oltremanica o d’oltreoceano.
Con la letteratura è andata più o meno così. Si sono creati dei cloni che hanno scritto cose simili a quelle che avevano avuto successo all’estero e l’operazione ha funzionato. Vedendo che l’operazione funzionava, gli editori hanno cominciato a pestare sul pedale inventando quella figura straordinaria che è lo scrittore giovane. Sembrava di aprire la Gazzetta dello Sport a un certo punto. Antologie di Under 25, poi di Under 21, poi di Under 20, poi di Under 15. Alè, via.
E questo ha determinato il criterio di scelta dei libri da pubblicare. Tutti sanno che ogni quattro cinque anni vien fuori il libro che fa il colpaccio, in cui l’autore o l’autrice parla di sesso droga e rock ‘n’ roll, e tutti loro, gli editor, i cosiddetti editor, sono lì con le punte delle orecchie alzate per cercare di capire chi sia questo possibile nuovo autore giovane. Perché l’editor ci fa una bella figura se vende un milione di copie con un libro che ha scelto lui di pubblicare anche se è cacca o, peggio, anche se lui sa che lo è. E questo è un tema moderno che prima non esisteva. Intendiamoci, di cacca ce n’è sempre stata, ma se in Italia oggi si pubblicano 50.000 libri all’anno, bisogna per forza pensare che in mezzo ci sia anche un po’ di cacca. Non si può pensare che siano tutti Promessi sposi. Bisogna pensare che in mezzo ci sia un bel po’ di cacca e dunque che anche le librerie ne contengano un bel po’. Naturalmente la gente non se ne accorge perché questa è cacca che non puzza, ma se puzzasse allora le librerie diventerebbero dei luoghi insopportabili, non ci si potrebbe star dentro. E’ come quando si va a pesci, il pesce non urla quando lo prendi all’amo, ma se urlasse di dolore – dolore che il pesce sente – a pesci non ci si andrebbe più. E così coi libri. Se la puzza di cacca si sentisse, da certi libri ci si starebbe lontano. Uno compra un libro e se lo porta a casa e quando lo legge comincia a sentir puzza di cacca, una puzza sempre più insistente, come farebbe a continuare? Lo potrebbe mettere su uno scaffale, ma anche lì, dopo un po’, cos’è sta puzza? dice la moglie. Cos’è sta puzza? Alla fine il marito sconsolato dice: Eh, sarà quel libro che ho comprato l’altro giorno. Ed è proprio così. E’ proprio quel libro.
Eh ma tu dai una visione negativa. Il libro deve avere solo un valore letterario per esistere?
No. Il libro è un prodotto come tanti altri. E difatti oggi gli editori cercano libri e non letteratura. Agli editori non importa nulla che un loro scrittore faccia della letteratura. Quello che importa loro è che venda. Poi naturalmente si salvano in corner pensando di essere editori che pubblicano roba che vende e allo stesso tempo sia anche letteratura, ma lo sanno tutti che non è così, salvo qualche raro caso. Dunque il libro non ha bisogno di un battesimo per esistere. Negli anni sessanta e settanta in Italia si faceva ricerca letteraria. Ma oggi chi la fa più? Giusto quelli che hanno avuto notorietà a quei tempi e poi anche loro con molta parsimonia. Direi che un processo simile è avvenuto nella politica. E tutto questo sa molto di America. La gente non sogna più la rivoluzione e non va più dietro a nessuna ideologia tranne quella che fa funzionare i servizi del suo quartiere. E questa è l’America. Disinteresse totale per il passato, denaro facile e weekend. E gli editori rispecchiano questo stato delle cose. E’ finita l’epoca dei pionieri, perché se anche un editore giovane volesse partire in quarta con idee diverse, poi si troverebbe a sbattere contro il muro della distribuzione. Vent’anni e passa di televisione commerciale cambiano un popolo ben più di quanto possa fare una rivoluzione. Lo cambiano proprio geneticamente e poi nella sua lingua. Così chi si adegua a questa nuova lingua fasulla portata in Italia dai media televisivi che per il novanta per cento è costituita da una bolsa riproduzione di frasari americani del cazzo può pensare scrivendo di toccare l’orecchio di un suo lettore già addestrato, altrimenti niente. Ma è proprio in questo niente che io vedo l’unica possibilità di fare letteratura oggi.
Tre cose che non vorresti e tre cose che invece vorresti che ci fossero.
Io per prima cosa non vorrei che ci fossero i ricchi, ma soprattutto i figli dei ricchi, quei giovani gonfi di sé fin dalla nascita e cresciuti con la convinzione che a loro sia dovuto tutto semplicemente perché sono ricchi. Io questi qua, la prossima volta che vengo al mondo, nel mondo in cui spero di venire al mondo, non ce li vorrei. Perché sono la rovina di tutto.
Poi non vorrei che ci fossero i figli dei figli dei ricchi, e questo è un desiderio sprecato perché i ricchi di terza generazione normalmente mandano a puttane il loro impero perché sono degli inetti e dunque avrei potuto fare a meno di esprimere un desiderio del genere perché tanto ci pensano loro a rovinarsi con le proprie mani, ma tanto per stare nel sicuro, non si sa mai.
Per terza cosa non vorrei i dossi sulle strade che mi sanno tanto di comunità barricata dietro al proprio benessere che non ha nessun bisogno di quei dossi se non per esibirli come status symbol, perché i dossi non sono dappertutto ma solo dove ci sta la cosiddetta gente bene che ipervalorizza la sicurezza della propria prole mentre del resto del mondo se ne scagazza. Se i dossi fossero dappertutto, e non vedo perché non dovrebbero essere dappertutto, chi ci andrebbe più in macchina?
Delle tre cose che vorrei una la so per certo: tornare indietro di cent’anni e fare un giro sulla via Emilia da Parma a Modena passando da Masone per vedere com’era la mia casa e chi c’era dentro quando ancora non era nato mio padre e mio nonno era solo un ragazzo.
ISBN: 8817011355