Daniele Benati: Intervista su Silenzio in Emilia
La prima domanda che mi viene su questo libro, cos’è la speranza più forte che una persona può avere in vita? E quale se ci fosse una consapevolezza postuma?
Non lo so, ma credo che la speranza di ognuno sia di realizzare i propri desideri. Fama, denaro, amore. Credo che si siano spente le megalomanie di trasformare il mondo in base a un credo ideologico. In quanto a una consapevolezza postuma, se ci potesse essere, penso che ognuno di noi vedrebbe chiaramente come tante cose a cui ha dato valore, di valore ne avessero ben poco.
Silenzio in Emilia è un libro di racconti di personaggi che per un motivo o per l’altro hanno a che fare con la morte, che spesso è la propria, altre volte è quella di chi li circonda, altre è la paranoia della morte. Nonostante l’argomento, si ride molto in questo libro. Perché è proibito oggi ridere della morte, anzi non solo ridere della morte, ma parlare della morte a meno ché non sia cronaca che allora la stessa morte viene trasformata in altro?
Beh, la morte è un tema che non attrae molto gli editori, a meno che non sia legato a qualche fatto di storia attuale, come una guerra o qualcosa di simile, che allora sono pronti a cavalcarlo, perché ne parlano già i media. Ma un libro che s'intitolasse La morte di Ivan Ilic oggi un editore ci andrebbe piano a pubblicarlo. Se l'autore fosse anche un nuovo Tolstoi gli proporrebbero di cambiar titolo. Come hanno fatto col primo libro di Ugo Cornia, che lui voleva intitolare Tanto fra un po' saremo tutti morti. Quanto al mio, Gianni Celati, all'epoca della prima edizione, mi aveva suggerito di intitolarlo Storia naturale dei morti, che poi ho scoperto essere un titolo che Hemingway aveva dato a un suo racconto. Io non l'avevo messo perché mi sembrava un po' troppo statuario, lo vedevo scolpito nel marmo bianco di una tomba e non mi sembrava che corrispondesse allo spirito del libro, che invece è pieno di vita. La morte, infatti, nel mio libro, è solo un artificio tecnico che serve per dare risalto alle cose, anche più stupide, che facciamo nella vita. Non ha niente di funereo, e non è tragica. Tragica, semmai, è la vita.
-Una cosa che mi ha molto colpito leggendo il tuo libro, è questa sensazione di tremenda malinconia, nonostante il fatto della morte sia sempre presente, più che la morte come sensazione spicca la nostalgia, la malinconia. In alcuni racconti, i personaggi stessi che narrano sono già morti, e vanno a vedere cosa è cambiato e cosa è rimasto uguale, quando non ritrovano più le cose al loro posto vengono spiazzati, cercano un po’ di conforto spesso frugandosi nelle tasche alla ricerca di qualcosa che li consoli, magari una sigaretta, ma nel primo racconto ad esempio il massimo che si trova nel taschino è un bottone di ricambio.
E perché non potrebbe essere proprio così l'aldilà, se ci fosse? Un mondo nel quale si ha la costante sensazione di aver perso qualcosa e ci si trova a mal partito. E' un po' il contrario di quando siamo nati, dato che in quel momento il qualcosa lo abbiamo trovato, seppure inconsapevolmente. Nei miei racconti è come se i personaggi si ritrovassero daccapo con la loro vita, ma incapaci di mandarla avanti. Hanno la stessa curiosità e la stessa preoccupazione che avrebbe un neonato se capisse che è nato. In realtà sono morti, ma non hanno la consapevolezza di esserlo esattamente come a un neonato manca quella di essere nato.
Qui i personaggi, son per lo più gente “semplice” normale, di paese, pure se con le loro ambizioni, i loro crucci, le loro invidie, sentimenti umani del resto, un po’ sembra di conoscerli da tanto sono reali, hai preso spunto da persone che hai conosciuto nella tua vita, o mi sorge il dubbio potresti essere anche tu?
No, a me innanzitutto vengono in mente dei nomi, o delle persone di cui posso aver sentito parlare e che per un motivo o per l'altro mi sono rimaste in mente. E questi nomi e queste persone hanno la capacità di trasformarsi immediatamente in personaggi. C'è qualcosa di adolescenziale, in questo. Di quando, da ragazzi, si cercava di penetrare nel mondo degli adulti attraverso la frequentazione di bar o di compagni un po' più grandi che a loro volta ne conoscevano di più grandi ancora che avevano già una notorietà locale perché magari stavano per essere venduti a un grande club di calcio o perché erano stati a Amsterdam in autostop. E allora si sentiva parlare del tale e del tal altro come fossero effettivamente dei personaggi. Gran parte dei nomi dei personaggi di Silenzio in Emilia, come pure quello di Pignagnoli, che però è antecedente al libro, dato che lo avevo usato per un racconto intitolato Sanremo, sono tutti nomi che sentivo da ragazzo e quasi tutti da un mio amico che faceva l'elettrauto e mi parlava dei suoi clienti. Ho sempre pensato che l'età dell'adolescenza è un grande serbatoio di emozioni e di idee per chi scrive, perché è lì che ci si affaccia al mondo e si fanno le “grandi scoperte”. Per me, ad esempio, la letteratura, l'arte, sono state scoperte che ho fatto a quell'età, ma al di fuori della scuola, ed erano scoperte proprio per questo. Erano il mondo, quello che nel mondo ci si poteva aspettare di trovare di bello. Sembra un po' tutto leggendario, a quell'età. Ma per tornare alla faccenda dei nomi, e qui si potrebbe parlare a lungo, e vedere quanta poca importanza abbiano in un certo tipo di narrativa, come quella di Moravia & Co., piena di nomi come Desiderio, Serafino, Agostino ecc., che non danno la minima idea di un personaggio, bisogna rendersi conto che dietro a un nome, come dice Celati, c'è una tonalità, ed è da questa tonalità che scaturisce l'individualità di un personaggio, da cui a sua volta può scaturire non solo una storia ma anche il modo di narrarla. Certo, se come è capitato in certa narrativa sperimentale, un personaggio si chiama C. e l'altro A., questo discorso non vale più.
-C’è un personaggio al quale nel tempo ti sei affezionato? E qualcuno nel quel ti senti un po’ te?
Sì, a tutti i personaggi del libro, ma in particolare al giocatore di bocce, dato che sono stato almeno per quattro anni un appassionato di questo gioco. Siccome però ero una schiappa, ho fatto poca strada. Ma ho continuato a guardare con ammirazione quelli che lo praticavano, che secondo me sono grandi artisti, in genere vecchi operai o artigiani, che sembrano macchine perfette e non sbagliano un colpo con la boccia in mano. Anche quella è arte, un insieme di concentrazione, abilità, astuzia e temperamento. L'altro personaggio a cui mi sento molto vicino, è l'ultimo, quello che in teoria avrebbe scritto il libro durante una visione da lui avuta davanti a un campo di calcio in cui si disputa una partita fra la squadra sgangherata di tutti i personaggi (morti) dei vari racconti e una squadra super in forma chiamata “Mercatone”. Al campo il personaggio, denominato “il figlio di Socetti”, innamorato non corrisposto della sua compagna di classe Portinari, è stato condotto dal suo cane che era morto un anno prima. E poiché per il giorno dopo deve scrivere un tema su un evento straordinario a cui ha assistito, decide di scrivere ciò che vede in quella stramba partita. Ma ciò che vede è una visione, non è qualcosa di reale, perché di fatto in quel campo si sta solo allenando una squadra di dilettanti. E' stata la sua testa abituata ad andar fuori tema e per questo a penalizzarlo nel suo rendimento in italiano, a fargli prendere ancora una volta la strada sbagliata. Fortuna vuole che proprio la sua compagna Portinari lo vada a cercare ai bordi di quel campo e lo riaccompagni a casa, mentre lui, sentendosi forte come Dante, le legge il suo scritto alla luce dei lampioni. Ecco, io, qui, messo fra mille virgolette, volevo fare un richiamo a Dante nel momento in cui viene condotto in Paradiso da Beatrice, dato che Portinari era il cognome di Beatrice, ma di tutti quelli che hanno scritto una recensione al libro quando è uscito nel 97, solo uno ci ha fatto caso. E dire che per me era tutto lì.
Sapresti dire a chi non l’ha letto ancora, perché nonostante sia un libro di racconti, tu lo senti meglio rappresentato come romanzo, o meglio che si scopra man mano nella lettura?
No. Questo libro non è un romanzo, ma nemmeno una raccolta di racconti. Per il semplice fatto che esiste una cornice (il racconto finale), nella quale ricompaiono tutti i personaggi del libro e altri personaggi vengono ripresi qui e là nei vari racconti. Si tratta di racconti, questo è certo, ma non solo di una raccolta di racconti.
A cosa o a chi devi l’idea di questo libro, da cosa è scaturita?
In parte al Terzo poliziotto di Flann O'Brien, un romanzo nel quale il narratore scopre di essere morto vent'anni dopo la sua morte; in parte alla traduzione che in quell'epoca stavo facendo dei Dubliners di Joyce, libro che contiene un racconto, quello finale, intitolato I morti, che spalanca grandi fantasie su questo tema; e in parte a vicende mie personali.
Questa edizione di Silenzio in Emilia (Quodlibet 2009) è una ristampa , la prima edizione era Feltrinelli ed. ’97 è cambiato in questi anni il modo di percepire questo tuo lavoro, o resti fedele a quelle sensazioni di allora?
Be', non ho visto molto interesse per questa ristampa, dato che non è uscita neanche una riga sui giornali. All'epoca della prima edizione, qualcosa si era mosso, il libro aveva avuto buone recensioni, aveva vinto un premio ed era arrivato finalista a un altro, su segnalazione della scrittrice Marta Morazzoni, che, a parte questo, stimo moltissimo. Ma credo che da allora siano cambiate parecchio le cose nell'editoria. Molte erano già cambiate dalla fine degli anni settanta ai novanta, ma dai novanta in poi è stato un macello. Adesso fai presto a finire al macero se non vendi. E gli editori ti stimano solo se vendi. Puoi aver scritto una puttanata ma se vende, l'editore ti guarda bene. Ed è logico, perché questa è la logica del mercato. Per quanto riguarda il mio libro, alcune cose non le scriverei più. C'è un atteggiamento di fondo che non sento più d'avere. E poi un sentimento per il valore del passato che oggi preferirei tenere per me, senza metterlo a repentaglio in un racconto.
Cos’è che ancora ti piace dello scrivere, e cosa invece non ti piace più?
Scrivere è bello quando senti di avere qualcosa per le mani. Purtroppo molte volte non è così, e allora più che scrivere si cincischia, si va alla ricerca di cose da raccontare, e in fondo lo scrivere può anche avere questo senso, di scrivere per sapere cosa si è scritto. Ma è una pratica che non può trasformarsi in metodo e allora sarebbe molto meglio aver le idee chiare fin da subito, con un soggetto da sviluppare secondo l'andamento di una trama da suddividere in varie fasi, come fanno gli scrittori americani o quelli nostrani che imitano gli americani. Il problema è che in Italia questa faccenda dello scrivere è avvolta da una tale, direi quasi comica, aura di narcisismo, che vien da ridere se poi si guardano i risultati. In America, straordinari scrittori di genere come Dashell Hammett, Jim Thompson e Philip Dick, producevano romanzi e racconti a getto continuo senza aspettarsi nulla, tranne i pochi soldi per i quali scrivevano. Il loro era un puro lavoro manuale non diverso da qualunque altro che il destino li avesse portati a fare. E proprio qui sta la loro grandezza. L'America è una terra rude che dà poco spazio alle sofisticazioni intellettuali e questi erano scrittori che non pensavano alla letteratura perché lo scrivere per loro era solo un modo di stare al mondo. Mentre qui da noi ecco che tutti, non appena pubblicano un libro, vanno a vedere in che posto sono stati messi nella letteratura e cominciano a sgomitare per farsi largo secondo una scaletta di affermazione che, partendo dal basso, procede in un modo che fa più o meno così. Prima bisogna scrivere e poi pubblicare, e quando hai pubblicato devi rispondere alla domanda: Con chi? Tu dici con un grande editore, e così ti arriva subito la seconda domanda:
Hai avuto recensioni? E se sì, dove? Perché c'è una bella differenza fra essere recensiti da un quotidiano nazionale di grande importanza ed essere recensiti nella pagina locale della gazzetta della tua città. E se ti hanno recensito sul quotidiano nazionale, da chi sei stato recensito? Perché c'è una bella differenza anche fra i critici. Ma diciamo che sei staro recensito da uno importante, così che possano scattare le domande successive: E di premi, nei hai vinti? Ti hanno invitato a leggere da qualche parte? Sei stato a Mantova, Roma, Parma, Modena? A Modena fanno il Festival di Filosofia, cosa c'entro io? Eh be', sei uno scrittore, invitano anche gli scrittori a Modena, gli scrittori, i pittori, gli idraulici e gli elettricisti. E poniamo che siate stati invitati a tutti i festival, e dunque abbiate risposto di sì, questo non vi mette al riparo da un'ulteriore domanda. Ma tu, dice, un agente ce l'hai? Certo che ce l'ho. Questa dell'agente è un'altra di quelle trovate americane che qui da noi buttano male, anche se il poter dire da parte vostra, all'inizio di un discorso: “Il mio agente s'è fatto in quattro...” o cose del genere, potrebbe farvi balzare dritti nell'Olimpo di chi conta, soprattutto per quell'uso del possessivo “mio”, uguale identico a quello che sta nel gradino superiore, quando lo scrittore, consapevole di esserci arrivato, sente di poter dire: “Il mio editore!” Quando uno scrittore dice “Il mio editore”, significa che ha toccato l'apice. Gli scrittori che dicono “Il mio editore” guardano il mondo dall'alto al basso. Ma solo per poco. Perché è in agguato un'altra domanda: Ti hanno tradotto all'estero? Certo che mi hanno tradotto, mi hanno tradotto di qua e di là. E poi vi mettete a parlare del vostro editore francese, di quello inglese e di quello americano. Nessuno, badate bene, parlerà mai di un editore paraguayano, ma tutti di quello francese, inglese e americano. E hai avuto premi anche all'estero? Certo che li ho avuti. Il nostro interlocutore a questo punto è spiazzato, non sa più che pesci pigliare, è smorto e sembra perfino dimagrito. Sta lì imbaciucchito dalle sue stesse domande fino a quando non gliene viene in mente un'altra: Il Premio Nobel però l'hai mica vinto? E voi: Quello è un premio di rappresentanza dove conta l'influenza delle ambasciate. Ti risulta che l'abbia vinto Kafka, o Proust, o Musil, o Celine, o Joseph Roth? Dopodiché si tace. Magari intorno s'è fatta primavera e ognuno sente che sta per capitargli qualcosa di bello. E' questo che non mi piace dello scrivere. Che tu fai delle cose e poi queste cose vengono giudicate in base al chiacchiericcio condominiale. Oggi poi che esiste internet, si fa presto a valutare dal buco della serratura la tua affermazione. La si vede dal numero di siti in cui ricorre il tuo nome. E tutti lo vanno a cercare, bada bene, è come se oggi tutti si facessero delle gran seghe non più guardando i siti porno ma quelli che riguardano il tuo nome. Io non lo so, ma secondo me c'è qualcosa di malato nell'aria, come forse c'era prima che crollasse l'Impero Romano che appunto deve essere crollato perché c'era qualcosa di malato nell'aria. E' come se tutti fossero dei debosciati. Ma forse è sempre stato così. E alla fine, per chi scrive, non rimane che appoggiarsi a quella famosa frase di Beckett che dice: Non c'è più niente di cui scrivere, niente da cui scrivere, niente per cui scrivere, tranne l'obbligo di farlo.
Sempre la morte non sembra una dimensione poi così tragica, ma davvero onirica, una dimensione di amnesia di farneticazioni, di fantasticazioni, ma anche di naturalità…
Noi ci immaginiamo la morte con la nostra coscienza di vivi, che ci farebbe dire: Sono morto. Ma questo è impossibile. La morte è indicibile. La possiamo immaginare, ma rimane al di là della comprensione. Ed è questo che la rende oggetto di fantasie narrative. Il non sapere contrapposto al sapere come punto di vista adottato da chi scrive. Chi scrive decidendo di non sapere brancola nel buio mentre chi scrive sapendo tutto va giù spiano con le sue cinquecento pagine, e buon per lui, bravo, arrivederci.
Chi è in grado di scrivere? Ieri e oggi, non voglio nomi, ma chi è capace di scrivere cose degne.
Oggi scrivono tutti. E' difficile dire chi passerà alla storia. Vent'anni fa volevano tutti fare i fotografi; trent'anni fa i pittori; quarant'anni fa i cantanti beat o i rivoluzionari. Quello che è certo è che, oggi come allora, ma oggi in maniera più evidente, tutti vogliono essere qualcuno, al di là del loro mestiere. C'è una tale smania di protagonismo nella nostra epoca, che c'è da rimanere allibiti. Se non scrivi, o dipingi, o fai fotografie, o suoni musica, puoi sempre cercare di agitarti per vedere il tuo nome stampato da qualche parte attraverso un assessorato, o come organizzatore di reading, presentazioni, conferenze, in modo da avere un serata in cui puoi vivere di luce riflessa, magari a cena, con il grande nome che hai invitato, e a cui, dopo aver pagato il conto, infili nella tasca il libretto delle tue poesie. E' indubbio che ci sia un grande produzione letteraria, oggi in Italia, coperta dalle case editrici. Sai quante case editrici sono nate dal 1998 al 2003? Dieci? Venti? Trenta? Quaranta? Cento? No, 553! Un numero strabiliante, secondo me. Vuol dire che la cosa rende, ma anche che finisce lì, nella rendita, non nella qualità.
Un tuo desiderio riguardo la scrittura, se ci fosse.
A me piacerebbe che le cose dell'editoria tornassero a com'erano quarant'anni fa. Quando la casa editrice Einaudi aveva le sue belle collane di scrittori sperimentali con dentro Arno Schmidt, Le-Clezio, Claude Simon, Peter Weiss, Samuel Beckett, e addirittura Heissenbuettel, o quella collana in cui bisognava tagliare le pagine, nella quale erano stati pubblicati La banda dei sospiri di Celati, L'arrivo della lozione di Vassalli, e lo straordinario libro di Ghizzardi, Mi richordo anchora. Mi piacerebbe che ci fosse un editore coraggioso come quello francese delle Editions de Minuit, o quello americano della Grove Press. Che pubblicavano Robbe-Grillet, o Samuel Beckett quando Samuel Beckett era un esule irlandese a Parigi, rifiutato da quarantadue case editrici inglesi, che mandava in giro sua moglie per non esser lui ad incassare l'ennesimo rifiuto. Questi editori avevano il fiuto e non correvano dietro ai soldi. E se oggi hanno quattro cinque sei dieci premi Nobel fra i loro autori è perché amavano la letteratura e la capivano. E così mi piacerebbe che in giro ci fosse uno di loro. Per cinque minuti, non di più.
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