INTERVISTA A GIANFRANCO MAMMI, “NON-SCRITTORE” EMILIANO



Gianfranco Mammi è nato a Caracas (Venezuela) nel 1957 , attualmente vive a Modena; ha pubblicato varie raccolte di poesie, i romanzi “Uomini, senza Mercedes” (Fernandel 2002), e in uscita “A perdere si fa meno fatica, storia delle mie disgrazie” (Traven books 2005)



Quando hai cominciato a scrivere, e che cos’è che ti ha spinto a farlo?

Ho cominciato con la poesia, verso i fatidici quindici anni, stimolato dai classici che dovevo studiare (italiani, latini e greci), ma anche da letture autonome – Rimbaud, Dylan Thomas, Trakl e tanti altri. Mi pareva che la poesia, rispetto alla prosa, fosse più viva e fluida, qualcosa di più immediato – adesso invece ho l’impressione opposta.

Hai insistito a lungo con la poesia?

Per più di vent’anni. Alla fine ho messo insieme due piccole raccolte, pubblicate a distanza di pochi mesi: Quaderno con tigre (1999) e Il doppiatore (2000). A un certo momento si trattava di fare il punto della situazione, buttando a mare anche certe liriche a cui ero molto affezionato, ma che non mi soddisfacevano dal punto di vista dello stile. Si sono salvate in poche.

Un atteggiamento di estremo rigore…

A me pareva di sì, ma a distanza di alcuni anni mi accorgo di non essere stato abbastanza “rigoroso”.

E quand’è che ti sei dedicato alla narrativa?

Ho provato molte volte, nel corso dei decenni, a scrivere in prosa, ma dopo aver buttato giù una mezza paginetta avevo la sensazione di non aver più nulla da dire. La svolta si è verificata attorno al 2000, quando ho cominciato a seguire le letture dal vivo di alcuni grandi autori contemporanei (Cavazzoni, Nori, Cornia, Benati…); ascoltando le loro voci e leggendo i loro libri sono stato colto da una specie di febbre narrativa, e nel giro di un mese ho cominciato una quindicina di racconti diversi, improvvisando frase per frase e saltando continuamente da un racconto all’altro. È stata un’esperienza molto gioiosa e divertente.

Si trattava dei racconti che sono poi confluiti in Uomini senza Mercedes, pubblicato da Fernandel nel 2002?

In gran parte sì, ma trattandosi dei primi passi in prosa quattro o cinque racconti sono stati giustamente cestinati dall’editore; gli altri hanno invece costituito l’ossatura su cui si è poi sviluppata la raccolta. In quelle prime prove ha preso corpo e ha via via acquistato carattere il protagonista dei venticinque racconti di Uomini senza Mercedes, assieme a quei cinque o sei personaggi secondari che a rotazione gli fanno da spalla.

Quelli che hai nominato prima sono tutti autori emiliani; è un puro caso o è qualcosa di più?

È vero che vivendo a Modena era più facile andare alle loro presentazioni, ma è anche stata una scelta precisa: con loro ci si diverte sempre – con altri autori questo purtroppo non accade.

Non c’è una contrapposizione tra i componenti di questo gruppo (tra i quali io ammiro particolarmente Nori e Cavazzoni) e altri narratori delle stesse zone, ma che sembrano estranei allo “scrivere emiliano”?

Non credo, anche perché secondo me non esiste uno “scrivere emiliano”; chiunque può scrivere in modo analogo in Calabria, in Piemonte, a Roma… Da noi esiste certamente un importante gruppo di narratori che condividono una certa visione del mondo, più che uno stile, e si frequentano spesso creando cose meravigliose, ma esiterei a definirlo una vera e propria “scuola”.

Oltre che da loro, da chi sei rimasto “affascinato”?

Sono tantissimi gli autori che, direttamente o indirettamente, hanno avuto una grande influenza sul mio approccio alla prosa: Celati, per esempio, o il Malerba di Salto mortale, Il serpente e La scoperta dell’alfabeto; ma anche Antonio Delfini, il Leopardi delle Operette morali, e poi ancora Céline, Bernhard, Erofeev, Svevo, Gadda, il Flaubert di Bouvard e Pécuchet…

Forse può bastare…

…Hrabal, Artaud, Durrenmatt, Bulgakov, Walser…

Ho detto che può bastare!

Va bene, la smetto – ma così ne restano fuori parecchi… per esempio, Cervantes.

Quali esperienze formative credi che siano utili e indispensabili per diventare un “buon scrittore”? E cosa pensi dei corsi di “scrittura creativa”?

Per vari motivi io mi ritengo un “non-scrittore”, quindi sono l’ultima persona al mondo a cui chiedere dei consigli; comunque, se proprio insisti, ritengo che la lettura sia la madre di tutte le scritture. Anche se probabilmente i “corsi di scrittura creativa” in genere non possono far del male, sono convinto che dei “percorsi di lettura consapevole” potrebbero dare molto di più, e con minor fatica.

Penso che qualunque romanzo, nonostante possa sembrare che non identifichi l’autore, sia quasi sempre un modo di mettere sul piatto la propria autobiografia. Sei d’accordo?

Sostanzialmente sì. Già il nostro modo di camminare e di gestire rivela molto di noi, figuriamoci una dichiarazione scritta. Secondo Borges anche un racconto che cominci con “C’era una volta un principe…” è autobiografico.

Torniamo al protagonista di Uomini senza Mercedes; è una classica figura di perdente o cos’altro?

Dal punto di vista della cosiddetta società del benessere, certamente sì. In realtà più che un perdente io lo definisco un “perso”, uno che si è lasciato perdere apposta e che non vuol farsi ritrovare da un certo tipo di umanità – un’umanità arida e arrivista. Senza voler giudicare nessuno, però.

Oltre ad essere un “perso”, qual è la caratteristica principale di questo personaggio?

Direi la perplessità: è come un omino affacciato alla finestra che osserva roteare un universo bizzarro e incomprensibile, con tutto il suo corredo di regole cogenti ma assai poco ragionevoli.

È lo stesso protagonista del romanzo A perdere si fa meno fatica, che sta per uscire presso la Traven Books…

Sì, il protagonista è sempre lo stesso, ma diventa un po’ più smaliziato; poi cambiano parecchi comprimari, e anche il contesto in cui si muove è molto più specifico e unitario – una grande industria dell’arredamento.

Hai seguito il metodo dell’improvvisazione anche nella stesura di questo libro?

Sì, ma è stata un po’ un’impresa – infatti ho impiegato quasi tre anni per scriverlo. Un romanzo bene o male deve avere una certa compattezza, una direzione, un suo “senso”, mentre nella forma del racconto io trovo una libertà quasi assoluta. Non che i miei racconti non abbiano “senso” (almeno lo spero), ma i vincoli formali ed espressivi sono molto più elastici, puoi inventare qualsiasi cosa e farla durare una pagina, oppure quattro, come vuoi. Un sostanziale equilibrio, con un po’ di lavoro, si raggiunge quasi sempre; nella forma del romanzo questo è un risultato molto più difficile da ottenere, ma è anche una sfida affascinante.

Il titolo “A perdere si fa meno fatica” con sottotitolo “Storia delle mie disgrazie”, è un titolo simpaticamente ironico, quanto c’è di autobiografico?

Dal punto di vista dell’azione narrata direi molto poco, dal punto di vista dell’approccio alla realtà mi ci ritrovo perfettamente. Per me nella vita possono esistere dei cosiddetti perdenti, ma non esistono vincitori. E allora perché darsi da fare per “vincere”?

Pensi di fare molte presentazioni di questo nuovo lavoro?

Spero di sì, anche perché l’editore mi sostiene in questa direzione. Intanto cominciamo con Modena, il 24 settembre alle ore 18, nella saletta della Libreria Feltrinelli – poi vedremo.

È vero che non usi il computer?

Non esageriamo; è vero che la prima stesura la faccio sempre con carta e penna, a volte addirittura a matita. Per me è molto importante l’aspetto materiale della scrittura – lo scorrere della mano sulla carta. Detto questo, il pc è indispensabile per impostare il testo base e procedere alle revisioni, che nel mio caso sono sempre moltissime. Ho l’impressione che un testo sia migliorabile all’infinito, solo che a un certo punto oggettivamente è meglio accontentarsi…

Tu scrivi per interpretare la realtà o per sfuggirle?

Non ne ho la più pallida idea. Scrivo per il puro e semplice piacere di scrivere, che per me è il divertimento assoluto. È per questo motivo che non mi ritengo uno scrittore, e nemmeno un “artigiano della parola”. Uno che si diverte a impilare dei sassi non puoi chiamarlo muratore, anche se alla lunga può darsi che ne venga fuori un muro. Comunque sì, forse il mio atteggiamento ludico porta più a una fuga che ad un approfondimento della realtà – almeno nel momento della redazione del testo. Poi però una frase, quando l’hai scritta e la lasci andare infra la gente, può combinare molti scherzi e arrivare molto in profondità…

Un appello che vorresti fare a tutti…

Invito tutti ad avere paura. Come dice Céline, non si ha mai abbastanza paura.

Il libro A perdere si fa meno fatica, storia delle mie disgraie.
Edito da Traven books.
La presentazione si terrà il 24 settembre ore 18 a Feltrinelli a Modena.



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