Learco Pignagnoli è uno scrittore che lavora presso la ditta emiliana Scoppiabigi e Figli, e ha pubblicato un libro strano che s'intitola “Opere complete di Learco Pignagnoli, a cura di Daniele Benati" (Aliberti editore 2006).



Ti ringrazio per avermi concesso l’intervista e la mia prima domanda è questa. Sono ormai tre anni che si fanno letture e convegni coi tuoi testi e ora è finalmente uscito il libro con le tue opere complete. Ma tu continui a non comparire in pubblico. E’ forse perché in un mondo dove tutti appaiono o vogliono apparire forse è meglio fare un passo indietro?

No, no. Io non compaio perché voglio fare il furbo. Voglio fare come quegli autori americani che non si fanno mai vedere in pubblico e non partecipano mai a nessun avvenimento così cresce l’interesse nei loro confronti...

E nei tuoi confronti l’interesse è cresciuto?

Quindi è stata una mossa azzeccata.

Pensi che sia merito anche dei quattro scrittori che normalmente leggono le tue opere in pubblico: Benati, Cornia, Nori, Raffaini?

Sì. Soprattutto loro. Ma anche di Cavazzoni e Alberto Manfredini detto “il Gaucho”

Veniamo alla letteratura. Ti interessa? Te lo chiedo perché, oltre a essere fuori dal giro, mi sembri un po’ naif nei tuoi attacchi. Non si capisce se scrivi certe cose in nome di un’idea che hai della letteratura o solo perché vuoi prendere in giro qualche “mostro sacro” come Moravia.

Moravia è un grande scrittore e mi guarderei bene dal prenderlo in giro. E’ uno scrittore che se la gente vedesse quello che ha scritto, cioè si figurasse visivamente quello che ha scritto, ad esempio le scene contenute in un romanzo come Il conformista,da cui peraltro è stato tratto un film, e dunque scene che si possono vedere, oppure leggesse a voce alta certi suoi dialoghi, s’accorgerebbe subito che è stato un grande artista, mentre tutti pensano che come scrittore non valga un cazzo.

Ma queste categorie, questo modo di dire, ad esempio di uno scrittore che è un grande scrittore, non è un po’ fiacco, cosa si vuol dire precisamente?

La domanda è buona. E’ un modo veloce per intendersi. Tutti hanno voglia di dire che quello che gli piace è grande e quello che non gli piace fa schifo e allora per comodità si usano questi aggettivi che non avrebbero di per sé nessun valore e non dovrebbero nemmeno essere usati. Fanno parte della pigrizia mentale che si riflette sulla lingua che usiamo. In realtà non ci sono grandi o piccoli scrittori, ma libri. E il destino dei libri è quello di andare sotto la macina del tempo oppure quello di contrapporre a questa macina un dorso duro che non si fa frantumare. Noi però non possiamo sapere cos’è che verrà schiacciato e spazzato via. Noi viviamo il presente e nel presente ha ragione il libro che va in classifica.

Mi pare di capire che non hai molta simpatia per i libri che vanno in classifica.

Al contrario, io leggo solo quelli. Ma volevo finire il discorso. Anzi, ricominciarlo. Perché oggi, per fortuna, quello che muove il mercato in una direzione anziché in un’altra, è il narcisismo del lettore. Non ci fosse quello, tutti i libri andrebbero al macero nel giro di una settimana. Cioè il lettore valuta un libro non secondo la sua tenuta stilistica, ma per quello che nel libro ci trova della sua esperienza. Se ad esempio un libro narra di una storia amorosa e contiene gli stessi mille patemi che anche il lettore ha vissuto o se ad esempio nel libro emergono riflessioni ideologiche con cui il lettore concorda, il lettore dice che quello è un gran libro, ma solo perché lui ci si ritrova. Quest’ultimo caso è abbastanza frequente e indicativo. Cioè il caso di un libro in cui siano esaltate opinioni che tirano da una certa parte ideologica. E allora avremo tutti quelli che pensano le stesse cose che diranno che quello è un gran libro, mentre avrebbero detto che faceva schifo se solo la tendenza ideologica fosse stata di segno opposto. Stessa trama, stesso ingombro ideologico, ma se il libro tirava dalla parte opposta non gli sarebbe piaciuto.

Oggi tutti cercano di fare commedia, di fare ridere, come in tv che anche se non ridi tu, ti mettono le risate che ti convinci sia divertente? Cos’è, ci credono stupidi? Tu come lo vedi l’umorismo oggi in Italia?

La risata è contagiosa come lo è lo sbadiglio e quando viene messa a commento di certe battute delle cosiddette sit-com è perché altrimenti quelle battute, nella loro nudità, farebbero pena e la gente spegnerebbe la televisione.

Che differenza c’è tra umorismo e umorismo. Cioè come fai a distinguere fra quello buono e quello scadente?

L’umorismo è un fattore umano e solo umano. Può essere prodotto dalla lingua come da qualunque accadimento. Un uomo che cade per terra fa ridere, anche se di per sé potrebbe essere una disgrazia. Ma perché non fa ridere una donna, che cade? Io ce l’avrei una risposta, ma non posso dirla perché altrimenti scatenerei una polemica che porterebbe a parlare di tutt’altro.
Direi che esiste un umorismo intelligente e un umorismo più terra terra. A volta però si scambiano di posizione e quello terra terra sembra intelligente e quello intelligente terra terra. E’ una questione di tempi e di oscillamenti culturali. Non si può mai sapere perché uno ride. Dipende dagli Dei. Se hanno voglia di ridere anche loro o no. Poi ci sono secoli di speculazioni filosofiche fatte sul perché del ridere. La cosa più azzeccata l’ho letta nei pensieri di Pascal, il quale diceva che due facce somiglianti, le quali non hanno nulla di comico prese di per sé, fanno però ridere perché si assomigliano. Questo spiega il perché la ripetizione, che è un espediente tipico della comicità teatrale e della barzelletta, produca il riso.
Poi ovviamente esistono diversi generi di umorismo. Quello della gag cinematografica, ad esempio. Ma generalmente si ride quando l’uomo è visto come una macchina e qualcosa subentra ad alterare il meccanismo di questa macchina. Quando cioè la macchina diventa imperfetta e inferiore a noi. Ci sono queste piccole cose che effettivamente devono essere solo così e hanno a che fare col corpo umano e la sua postura. Ad esempio, in teatro un grande discorso serio e impegnato, il monologo di Amleto, ad esempio, non potrebbe essere fatto da un personaggio seduto su una sedia. Se lo fa seduto su una sedia, fa ridere. Deve stare in piedi, o in ginocchio. Perché è la postura del suo corpo a dare sostanza al discorso, e se la postura è sbagliata non c’è Shakespeare che tenga. Ma, io che le ho contante, sono milletrecentododici le ragioni per cui si ride. Dunque è difficile stabilire quali di queste siano da ascrivere a un umorismo di prima classe e quali a un umorismo becero. Certo è che esiste anche quest’ultimo, ma è un bene, perché poi passano gli anni e tutto quello che faceva ridere un tempo non fa più ridere e quello che era serio e impegnato fa sganasciare dalle risate. Basta aspettare un po’ e c’è da ridere su tutto.

Trovi sia sottovalutata invece l’ironia vera come forma di intelligenza?

Anche qui, non so, c’è ironia e ironia. L’ironia è dire il contrario di ciò che si pensa. Se ad esempio un giorno piove e ci sono nuvoloni grigi per il cielo e uno dice: Bella giornata, oggi! tutti capiamo che sta facendo dell’ironia. Applicata ad altre cose è una scorciatoia che si prende per esprimere il proprio pensiero. Il problema è che oggi tutti si stanno abituando a prendere per vero quello che gli altri dicono, e l’ironia, o, ancor peggio, l’autoironia, hanno vita grama, perché se tu dici ad esempio di un certo scrittore che è bravo, e lo dici ironicamente, la gente tende a pensare che sia bravo davvero, e questo è un male. E così penso che l’ironia ha ancora una sua valenza nelle società povere perché in quelle ricche, dove tutti sanno che nome dare alle cose che li riguardano e si sono attrezzati per prender tutto sul serio e soprattutto il valore di facciata delle cose dette, il gioco dell’ironia non funziona più, e men che meno quello dell’auto-ironia. E di questo fatto devono stare molto attenti i professori universitari i quali un tempo potevano ancora dire, come concessione fatta al pubblico, che non erano molto ferrati riguardo a un certo argomento, cosa che dicevano solo perché sapevano che fra il pubblico tutti sapevano che loro invece ne sapevano eccome – mentre adesso invece farebbero la grama figura degli sprovveduti. Cioè l’auto-ironia è andata a farsi fottere. Devono stare molto attenti soprattutto loro, i professori universitari. L’ironia, o l’auto-ironia, gli taglierà il collo prima o poi.

Ma veniamo a quello che hai scritto tu. Normalmente sono cose brevi. Cose che lasciano un po’ di stucco e tirano alla risata, anche se non tutte lo fanno. Anzi, io penso che in fondo questo sia un riso amaro.

Quelli che fanno ridere, bravi o cani che siano, io li considero dei benefattori dell’umanità. Sono come i grassi di Kafka, che diceva che d’inverno scaldano e d’estate fanno ombra. Che poi la comicità possa essere il sintomo o il prodotto di una visione cupa del mondo questo è inevitabile, perché la comicità è una reazione. Basta guardare la differenza fra la letteratura inglese e quella irlandese. Nella prima troviamo degli scrittori seri e con un muso lungo un metro, nell’altra gente che ha creato dei capolavori di comicità. Ma ovviamente il loro era un ridere per non piangere, dato che ci hanno avuto sette secoli di dominazione inglese sul groppone. E quindi si ride per non piangere. Il riso quindi è sempre amaro. Ridere non significa divertirsi, anche se è forse una delle cose più straordinarie che ci siano nell’universo. Ridere significa essere intelligenti. Poi il riso può nascondere mille altre sfaccettature, e i filosofi di tutti i tempi si sono dati da fare per spiegarle senza mai riuscirci in maniera convincente. C’è sempre qualcosa che fa ridere e allo stesso tempo sfugge alla loro teoria. Ma questo credo che si possa dire di qualunque espressione umana. Dove c’è una teoria, c’è sempre qualcosa che sgarra. E chi ha una teoria vuol dire che non sa.

Su un manuale di scrittura creativa ho letto che per creare un personaggio è bene fin da subito fargli dire cosa gli piace e cosa no, per caratterizzarlo. Tu cosa ne pensi?

E’ vero. Se un personaggio dice quello che gli piace e quello che non gli piace, si presenta subito nel migliore dei modi, cioè nel minor tempo possibile. Ma poi cosa vuol dire? Quello che conta è come si sanno raccontare le cose. Di cose da raccontare ce ne sono sempre, quello che conta è come vengono raccontate. Se qualcuno sa raccontare lo si legge con rapimento anche se di fatto non ci sta raccontando niente. Anzi, il massimo secondo me sarebbe che uno leggesse un libro e poi il giorno dopo lo consigliasse a un suo amico. Un libro su cosa? gli chiede l’amico. Non lo so, direbbe lui, ma te lo consiglio. Ecco, questo sarebbe di sicuro un gran libro.

Ma i libri devono avere un soggetto, altrimenti di cosa parlano?

Questa è un’idea commerciale del libro. Romanzo ambientato in Jugoslavia durante la guerra fra Serbi e Croati. Chi lo leggerebbe più un libro del genere, adesso che la guerra è finita? Questa è solo un’idea giornalistica che si ha della letteratura, e che soprattutto hanno gli editori. Gli editori comprano l’Espresso e poi dicono: Vediamo se fra i romanzi che abbiamo ricevuto di recente ce n’è uno che parla delle stesse cose di cui parla l’Espresso questa settimana. E se c’è, lo pubblicano. E quello, secondo loro, sarebbe un romanzo con un soggetto.

Ha in qualche modo a che fare anche con il cinismo quello che scrivi, secondo me sì, per te?

Il cinismo è acido. Può essere un bel modo di guardare al mondo ma poi bisogna farsi i raggi per vedere se casomai non ti è venuta l’ulcera a forza di guardarlo in quel modo. Io l’ulcera per il momento non ce l’ho. Prendo del Maalox, ma solo se bevo.

Quanto importante è il linguaggio che si adotta anche in maniera indiretta, per la cultura di una popolazione?

Non so cosa vuol dire linguaggio indiretto. Non c’è linguaggio indiretto, non esiste.

C’è sempre questo “frasario storpiato” che non è né carne né pesce che si italianizzano delle strutture sintattiche che non ci appartengono. Come riportare in italiano delle frasi americane che non esisterebbero originariamente qui da noi. Pensi che sia negativo questo?

Le lingue di tutti i popoli sono il frutto della dominazione che questi popoli hanno subito. La lingua è duttile e risucchia tutti gli elementi che vengono dalle culture da cui sono state conquistate. A me fanno ridere i cosiddetti disc-jokey di una radio locale che ascolto. Se senti come parlano, è tutto un parolame fitto di termini americani come band, per dire complesso – hanno sempre in bocca questa parola, band, per dire complesso – oppure gli States, per dire Stati Uniti, o scena musicale, che di nuovo è un calco dall’americano. Sempre in bocca di queste parole, hanno, perché credono in questo modo di essere nel giro del mondo, che è appunto quello comandato dagli americani. Poi senti i loro discorsi e sono tutti improntati alla demonizzazione dell’America e del loro presidente. Non che sia sbagliato questo, ma allora parlate in un altro modo, ragazzi, perché il condizionamento della lingua è detto condizionamento primario e dunque tutti questi qua che fan delle gran filippiche contro l’America in realtà sono i primi ad essere infinocchiati proprio dalla cultura americana. E a poco vale la loro convinzione di essere al seguito dell’America giusta e protestataria – cioè quella della cultura rock – perché questa in America non esiste dato che in America l’unico valore che esiste è quello del denaro, a cui in particolare proprio i cosiddetti artisti del rock hanno dato ascolto. Capisci?

Si direbbe che tu la conosca molto bene, l’America. Ci sei stato?

Mai.

E allora come fai a dire queste cose?

Tiro a indovinare, ma non mi sbaglio.

Torniamo alla letteratura

La letteratura è un fatto di lingua. C’è chi la produce e chi no, pur scrivendo libri di grande successo. Manzoni è un buon esempio di uno che ha creato una lingua. E così anche Dante. Oppure Nievo. Oppure Verga.

Tutti scrittori del passato, però. Del presente, o del passato prossimo, chi citeresti?

Preferisco non far nomi, ma ci sono, ce ne sono tanti. Meno di quelli che fanno successo, però.

Perché non vuoi far nomi?

Per rispetto. Si usano sempre paroloni in questi casi. Qualche tempo fa mi è capitato di leggere il commento di un poeta che parlando di un libro scritto da un suo amico diceva che era il più bel libro degli ultimi vent’anni. Ebbene quella era una frase che non aveva senso, perché, per poterla dire, e poterle dare tutto il senso che essa avrebbe dovuto avere, il poeta romano avrebbe dovuto aver letto tutti i libri pubblicati in Italia negli ultimi vent’anni, cosa che per farla, di anni a lui che tra l’altro è un lettore lento e poco abituato a leggere, dato che non legge quasi un cazzo, di anni gliene sarebbero voluti circa ottocentocinquanta. Dunque la sua era una frase corretta dal punto di vista grammaticale, ma priva di senso, cioè priva di contenuto. E questo sia detto con tutto il rispetto per il libro in questione che era, di fatto, un bel libro. Ma sparare i paroloni significa far cilecca nel senso.

Bene. Sono contenta di averti parlato. Ma come sei fisicamente?

Sono molto bello.



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