Paolo Colagrande "sull'accalappiacani"
Oggi ci sono moltissimi libri e riviste - in questo multiplo groviglio editoriale da cosa nasce l'esigenza di creare una rivista come "quella dell'accalappiacani"?
L’intenzione – più che l’esigenza – è di creare qualcosa che somigli a un libro, a puntate settemestrali e a più voci, su un’idea che rifletta un senso condiviso dello scrivere. Quale sia questo senso condiviso non è facile da spiegare. Alla prima riunione Ermanno Cavazzoni ha detto una frase che non saprei ripetere con le stesse parole ma che somigliava a questa: “sentirsi gli ultimi della classe è già un bel modo di partire”. L’ultimo della classe, quello definitivo e irrecuperabile (non quello da redimere), ha un rapporto più diretto con il mondo, non ha il peso di una identità da difendere, non ha voce in capitolo, non conosce l’ansia da prestazione e non corre mai il rischio di essere sopravvalutato, e neanche di sopravvalutarsi, perché le sue energie corrono su un livello di autostima piuttosto basso, di solito. Secondo me con l’accalappiacani siamo partiti così. Una aggettivo che usiamo spesso nelle nostre riunioni è Povero. Povero è una parola bellissima perchè riassume la vera dimensione tragicomica delle cose. Se poi l’aggettivo povero lo riferiamo alle idee, o anche alla letteratura, possiamo già avere una prima impressione di cosa sia l’accalappiacani. Nell’ultima riunione è saltato fuori anche l’aggettivo Sfortunato che, dice Paolo Nori, a Parma si usa come sinonimo di ritardato.
Tu dici che il "Semplice" è stata un po’ la rivista “precursore” “de l’accalappiacani” - con stessi autori allora Benati, Celati, Cavazzoni, Ugo Cornia e Daniele Benati . Per cosa è stata importante quella rivista allora, e oggi cosa hai ritrovato del “Semplice” - e cosa invece è cambiato?
Ho scoperto il semplice quando già non c’era più, dopo aver conosciuto Paolo Nori e poi Ugo Cornia, Daniele Benati, Alfredo Gianolio, e poco alla volta gli altri. Dal Semplice è uscita un’idea di letteratura che cresce a un livello più fisico che intellettuale: una volta Ugo Cornia ha parlato proprio di piacere fisico dello scrivere: la sensazione di benessere di quando arrivi a esprimere qualcosa che senti tuo e che ti commuove per il fatto stesso di vedertelo scritto davanti. Mi viene in mente che Luigi Malerba quando gli han chiesto: perché scrivi? ha risposto: per vedere quello che penso. Quando, attraverso la scrittura, tu arrivi a vedere quello che pensi, entri in uno stadio autenticamente erotico. Il semplice riusciva a raccontare facendo parlare le cose o gli animali, o persone che non sapevano di aver qualcosa da dire (le sbobinature di Gianolio): una letteratura che sta all’opposto del parlare come un libro stampato e che riporta in primo piano ad esempio la ligua dei semicolti. È giusto dire che il semplice è stata la rivista precursore dell’accalappiacani: del resto chi ha pensato l’accalappiacani veniva da lì. Ma credo che neppure per un attimo si sia pensato di replicare Il semplice o di fare qualcosa che gli somigliasse. All’accalappiacani partecipano centinaia di autori con stili, scritture, voci diverse, che forse – ma non è mica detto – condividono l’idea di una letteratura a panoramica ribaltata, cioè dal livello calpestabile del cane – quello sciolto, a rischio di accalappiamento - che gira, si ferma, annusa e poi innaffia. Questo è un punto di partenza ma non so se è uno stile o un modello, o riflette una poetica: la letteratura comparata al nulla è in fondo il contrario di un qualunque modello o poetica.
Se dovessi nominare dei caratteri della rivista per fare capire ad un eventuale pubblico di cosa si tratta, di quali vorresti parlare, quali ne escono meglio nell’insieme?
Intanto la settemestralità: se vuoi sapere ad esempio in che mese uscirà il n. 4 o il n. 7 devi fare un calcolo abbastanza difficile. Poi non c’è pretesa di scuola o sodalizio: alle riunioni può partecipare chiunque; chiunque può mandare i propri testi e venire a Reggio a leggerli. La mancanza di un ordine o un percorso logico dà una totale libertà di tema, nel senso che non c’è niente di cui non si potrebbe parlare: partendo da un’idea magari si arriva a trovarne un’altra, migliore. L’idea, non dichiarata, che ha ispirato il n. 1 è la parola sugamàn; quella del n. 2 sarà il centounesimo anniversario della nascita di un celebre scrittore del novecento. Partiamo con il dire intanto che la rivista non ècomposta da solo autori emiliani, ma di tutta Italia.
Nonostante questo, credi ci sia un'emilianità in questa rivista?
Non lo so. Si tratta poi di capire bene cosa sia: credo che in alcuni di noi la voce emiliana sia riconoscibile senza diventare però la voce della rivista. Anzi adesso che la sfoglio mi sembra che la rivista abbia una voce per così dire indecisa, può contenerle tutte. Te credi che quella "degli scrittori emiliani" possa considerarsi una "scuola di pensiero" per la scrittura?Ha senso dire che esiste una scrittura emiliana,e a cerchiare un gruppo di autori come quasi fossero uno solo? Non riesco a pensare a scuole di pensiero basate sull’appartenenza geografica: c’è sempre il rischio di innescare un meccanismo troppo facile di inclusione-esclusione. Ogni regione o zona ha propri caratteri che inevitabilmente condizionano le persone, le cadenze, il modo di vedere le cose, ma non so in che misura questo possa trovare una sintesi in letteratura. Un tratto particolare, se si vuol fare questo tipo di indagine, può essere certa vanvera stralunata, una cantilena del racconto con gusto dell’accumulo e della divagazione. Ma non credo che sia una caratteristica solo emiliana e di sicuro non è un registro comune degli scrittori emiliani. Teniamo presente poi che l’emilia è una regione lunga e un po’ obliqua: se confrontiamo ad esempio il piacentino con il ferrarese troviamo due lingue che non si somigliano neanche.
Com’è che si fraintende spesso “la serietà letteraria” quando si parla di scrittura orale, è una deformazione accademica o non solo?
Credo che la scrittura cosiddetta orale rappresenti un modo di scrivere che ti fa vedere le cose mentre le leggi o le ascolti, senza filtri e con un registro comunicativo quasi gestuale, come nel racconto a voce. Ma la frase scritta non sarà mai quella parlata: il mezzo è troppo diverso: ci sono dei segni, sulla pagina. Io non sono contrario alla lingua letteraria in sé, ma quando lo strumento linguistico diventa lo scopo della narrazione non c’è più letteratura ma solo un buon uso dello strumento. E’ qui, forse, l’equivoco. Al di là del letterario o del parlato, secondo me la letteratura deve riuscire a parlarti. A volte invece si ha come l’impressione che l’autore voglia prendere le distanze dal suo interlocutore, per paura di contaminarsi. Ritorniamo al discorso che facevamo prima: la visuale panoramica a volte non ti fa vedere il meglio, te lo nasconde, quello che con la visuale da basso vedi bene e da vicino. Il punto di vista del cane, appunto, o dell’ultimo della classe.
I criteri di selezioni dei testi come sono avvenuti?
I testi arrivano a un indirizzo mail e vengono poi girati a tutti quelli iscritti alla mailing list. Ci troviamo in circa una ventina ogni mese al cinema cristallo di Reggio Emilia per commentare i testi e leggere quelli che ci sono piaciuti di più. I testi spesso vengono letti dagli autori. Dalla lettura nascono spesso le idee; o anche viceversa, da un’idea nasce un testo. Per ogni numero della rivista si forma una specie di gruppo di redazione di tre persone che seleziona i pezzi e li ordina: poi se ne riparla alla successiva riunione. La scelta di non mettere ad ogni brano il corrispettivo autore...? Riflette l’idea che ogni numero della rivista possa essere un libro da leggere dall’inizio alla fine senza che venga la voglia di sapere chi ha scritto ciascun pezzo. Una cosa che comunemente si fa quando si sfoglia una rivista è di andare subito all’indice per vedere gli autori, per poi leggere subito (o solo) quelli che interessano. Nell’accalappiacani invece i nomi li trovi alla fine senza un ordine che ti riporti al testo. Nei tuoi primi pezzi, si sentiva una forteimpressione "Noreggiante", che sei riuscitoscavalcare, e nel tuo ultimo romanzo Fidég infattivive di una voce del tutto autonoma.Ecco alcune letture, che vengono facile e bene daseguire restano piantate in testa, e per chi scrivecredo venga spontaneo andare dietro quest'andamento.Se poi pensiamo alla scrittura legata all'oralità cheè molto ritmica, questa influenza è ancora più marcata.
Te cosa consigli per chi è appassionato dicerti autori, ma deve "staccarsi" per trovare un proprio tono?
L’incontro con Paolo (e, per tramite suo, con gli altri) è stato importante per capire meglio come e cosa volevo scrivere e quindi per trovare una voce naturale che spesso il meccanismo dello scrivere ti mette un po’ in sordina. La scrittura di Paolo secondo me è inconfondibile perché è stato lui ad inventarla: prima non c’era. Quindi l’impressione noreggiante che dici tu probabilmente c’è o c’è stata. Di sicuro ci sono letture che più di altre ti indicano una direzione che tu prima facevi fatica a vedere. Ma poi le gambe per camminare sono tue e la strada non c’è: te la devi fare. E’ un meccanismo progressivo spontaneo, da lasciar funzionare senza forzarlo. L’importante è non imitare la voce di un altro: perché è impossibile riuscirci, ti esce solo un falsetto triste, anche se sei un fenomeno.
Tu pensi che fare lo scrittore possa essere un mestiere come un altro?
Come un altro no. Ci hanno insegnato che per vivere bisogna lavorare. Quindi il lavoro serve a quello, ti piaccia o no: se non ci ti piace devi cercare di farlo lo stesso a onor del mondo e senza far danni. E’ ovvio che scrivere è un’altra cosa, anche quando ti dà da vivere. Il problema è che la scrittura, se sei diventato uno scrittore, è poco compatibile con tutto il resto: diventa il tuo unico vero interesse e ruba spazio anche a quel lavoro che ti dà da mangiare. Sono diventato scrittore a un’età in cui il lavoro deve funzionare per forza perché non lo puoi più cambiare, soprattutto se hai una famiglia con dei bambini piccoli. E qui c’è il dramma (il lavoro, non la famiglia e i bambini piccoli). Facendo lo scrittore subentrano nuovi impegni che vanno oltre la scrittura in sé: hai degli obblighi da rispettare, devi girare per il tuo libro, hai delle scadenze, eccetera eccetera: e vai un po’ in confusione.
Credi nei corsi di scrittura creativa?
Credo nelle riunioni creative, anche sottoforma di pranzi, cene, merende. E credo nella lettura creativa e nell’ascolto creativo di chi ha qualcosa da dirti, come uno scrittore che ti racconta qualcosa. Da questo punto di vista le riunioni dell’accalappia sono scuole di scrittura. Non credo invece nei corsi di scrittura creativa dove lo scrittore professore insegna e l’allievo studia per diventar scrittore e magari prendere il diploma. Magari mi sbaglio, perché mi rendo conto che è un giudizio un po’ semplicistico.
Quali sono i sentimenti che più ti fanno scrivere?
Certe situazioni quotidiane apparentemente insignificanti che però, in un certo istante e per una combinazione che non ti spieghi, ti attraversano la testa come un proiettile. E’ da lì che nasce lo scrivere, secondo me, più che dai sentimenti o dalle emozioni. Anzi i sentimenti, quelli classici, o le emozioni, in un certo senso mi inaridiscono.